Sempre più donne non si depilano

Nella puntata di ieri sera (30 Marzo 2022) la trasmissione Le Iene ha mandato in onda questo curioso e bizzarro servizio. A quanto pare sono sempre di più le donne che si lasciano crescere i peli su gambe e ascelle. La colpa? Una crisi psichiatrica generalizzata? Ma no, il solito patriarcato, ovviamente!

Due considerazioni.

Primo. Perché mai limitarsi alla depilazione? Evitate di truccarvi, mettervi unghie e ciglia finte, gioielli, andare dal parrucchiere almeno una volta la settimana, usare cremine, olietti e balsamini. Restate naturali. Basta che non vi lamentiate delle conseguenze, però.

Secondo. Le conseguenze, appunto. Ecco quello che accadrà (e non ci vuole un genio della lampada o del portalampada per fare questa previsione): un numero crescente di maschi padani, italiani, siciliani e sardi accelererà quello che è già in corso da tempo, ovvero la scelta di una partner rumena, moldava, polacca, russa, ucraina, (ma anche baltica, slovena, ceca, ungherese, slovacca, …). Vantaggi? Donne che tengono alla propria femminilità, non hanno sensi di colpa religiosi connessi alla loro vita sessuale, hanno un profondo e bellissimo senso della famiglia, sono generalmente ottime madri e sanno fare un sacco di lavori semplici ma importanti che le femmine locali considerano inutili o roba da nonne e bisnonne.

Ah, a proposito, nessuno vi rimpiangerà, quindi procedete pure a gambe levate e a passi veloci verso la vostra nuova dimensione di femmine yeti.

Migrazione ucraina, migrazione russa

Estonia e Finlandia hanno già cominciato a interrogarsi sulle possibili conseguenze derivanti dalle migrazioni di Ucraini e Russi verso l’Unione Europea. Tra le due migrazioni, tuttavia, vi sono non poche differenze.

La migrazione ucraina, di proporzioni colossali, è in corso dai giorni immediatamente successivi all’inizio della guerra, ovvero da poco più di un mese. Nonostante i numeri elevatissimi, si tratta di un fenomeno provvisorio: alla fine delle ostilità quasi tutti i soggetti coinvolti, per loro stessa ammissione, rientreranno in patria.

La migrazione russa, invece, ha caratteristiche differenti. Per ora ha numeri modesti (poche decine di migliaia di individui, diretti prevalentemente in Finlandia e Serbia, e a seguire in Estonia e negli altri due Stati baltici), ma si ipotizza un cospicuo aumento dei flussi nella seconda parte dell’anno, quando il peso delle sanzioni occidentali si prevede farà sentire il grosso dei suoi effetti avversi. I Russi in fuga, dunque, non sono orientati a rientrare in patria nel breve termine, a meno di profondi e improbabili (almeno in tempi brevi) sconvolgimenti della politica del loro Paese (destituzione/assassinio di Putin e liberazione/elezione di Navalny). Si tratta, cioè, di una migrazione con caratteristiche permanenti. L’effetto negativo è che il tessuto sociale russo è destinato a perdere proprio quelle figure di valore (più qualificate e occidentalizzate) che sarebbero più utili in patria per favorire e velocizzare un cambio di regime. E la prima conseguenza inevitabile è che il cambio di regime sarà ritardato.

La Lituania appartiene alla regione russa?

Me ne aveva parlato mia moglie qualche giorno fa. Ora se ne è occupata anche l’Unione Sarda e la faccenda si è fatta decisamente seria.

Avere più corde al proprio arco

Eh sì, la versione inglese del nostro “avere più frecce al proprio arco” è “to have more than one string to one’s bow”.

Il Post intervista Ruslan Shaveddinov a Vilnius

Qui il pezzo.

Israel, Fearing Russian Reaction, Blocked Spyware for Ukraine and Estonia

Articolo del New York Times, ripreso – più succintamente – anche da altri (Jerusalem Post, qui, Middle East Eye, qui, Peoples Gazette, qui).

Questa, invece, è la pagina di Wikipedia dedicata a Pegasus e qui c’è un articolo di Wired sullo stesso argomento.

Kopā mēs esam spēks

Ha conosciuto una certa fortuna l’immagine del murales realizzato pochi giorni a Riga dall’artista di strada Dainis Rudens (non vi metto un link perché ce ne sono troppi, e di quelli che non amo, tipo Instagram, Facebook, ecc.). L’opera è ispirata a uno scatto della fotografa Francesca Tilio di Jesi.

Diversi mezzi di informazione nostrani (per esempio l’ANSA, qui) ne hanno parlato e hanno sùbito colto l’occasione per tradurre “Kopā mēs esam spēks” in modo impreciso: non “insieme siamo più forti”, ma “insieme siamo una forza”.

L’Estonia si sente minacciata? Viaggio a Narva, città al confine con la Russia

A questo link trovate il pezzo del giornalista e reporter Hans von der Brelie. Descrizione quasi identica a quella fatta nel reportage di Gordon F Sander da Daugavpils, di cui vi ho parlato solo due giorni fa. E anche Narva è una di quelle città in cui sono stato più volte e che – a differenza di Daugavpils – ho tanta voglia di rivedere.

Quali sono gli accordi presi tra il governo Conte e Vladimir Putin nella primavera del 2020?

Se lo chiede Linkiesta in questo articolo di ieri.

L’anniversario dell’indipendenza lituana e il sostegno all’Ucraina

L’anniversario dell’indipendenza lituana e il sostegno all’Ucraina.

NFZ

Recentemente i parlamenti dei tre Stati baltici hanno votato una risoluzione per istituire una no-fly zone sui cieli dell’Ucraina. Come è possibile che sia passata una cosa del genere che, se tradotta in realtà, avrebbe elevatissime probabilità di innescare una nuova guerra mondiale?

I Baltici pensano che in questo modo si fermerebbe la strage di civili ucraini (da un lato è falso, e dall’altro darebbe addirittura inizio a una nuova strage: quella dei cittadini baltici). Pensano inoltre che, prima o poi, Putin invaderà Lituania, Lettonia ed Estonia, e quindi tanto vale intervenire sùbito (comportamento insensato perché un conto è attaccare, un conto difendersi).

E le conseguenze?

Ecco, le conseguenze. Questa posizione è ovviamente irragionevole e difficilmente verrà supportata dagli altri partner atlantici. Ma perché una posizione del genere ha potuto svilupparsi?

Le semplificazioni fanno spesso gravi danni. In questo caso la semplificazione porta a pensare che i Baltici siano come noi, mentre non lo sono. Ve lo dice uno che conosce quei popoli da quasi 25 anni.

I Baltici sono iper-testardi, iper-nazionalisti e iper-impulsivi, tre elementi – tutti negativi – che li accomunano più ai Russi che a noi. Il contesto storico e sociale li ha resi così (non è che così si nasce, ovviamente) e ci vorrà parecchio tempo prima che si ammorbidiscano, imparino l’arte della diplomazia e imparino a prevedere e a pesare le conseguenze di certe azioni e provocazioni.

Quindi facciamoli pure abbaiare, ma teniamo ben saldo il guinzaglio.

They Speak Russian, But Do They Support Putin’s War?

Riporto di seguito il reportage del giornalista e storico Gordon F Sander da Daugavpils, di cui avevo già parlato nei giorni scorsi. L’articolo è apparso su Politico.

Daugavpils, Latvia — A dozen or so Ukrainian parents gathered in the sunlit auditorium of the city’s Middle School 10. They had arrived just days earlier to this southeastern Latvian city as refugees and needed to choose a temporary secondary school for their uprooted children.

They listened as local educators described their options and tried to make them feel at home. The head of the sports department expounded on the city’s strong hockey culture and told the parents, most with sons who played hockey, that their children were welcome to join the after-school hockey club.

One Ukrainian mother suddenly raised her hand. “What if my child was placed in a school with the children from a pro-Russian household?” she asked in Russian. The room fell silent and a TV cameraman from the local station zoomed in on her. “Should I worry about him being bullied?”

Ukrainian parents gathered in the auditorium of Middle School 10 in Daugavpils, Latvia. They had arrived just days earlier to the city as refugees. These Ukrainian refugees in Latvia needed to choose a temporary secondary school for their uprooted children. In the auditorium of a middle school, they listened as local educators described their options and tried to make them feel at home.
The refugee orientation in the auditorium of Middle School 10. The projector is showing the Latvian and Ukrainian flags.

The question was an understandable one. Daugavpils has a large Russian-speaking population, one of the largest concentrations in the Baltic states, and is widely considered the capital of Russian-speaking Latvia. It was in the name of Russian speakers in places like Daugavpils that Russian President Vladimir Putin launched his war against Ukraine, alleging that they face not just discrimination but “genocide” in Ukraine and Baltic states like Latvia, all former Soviet republics.

Thus if there were a part of Latvia that would support Putin’s war in Ukraine, one might think it would be Daugavpils, a city of 83,000 located on the banks of the Daugava River just 75 miles from the Russian border. Daugavpils (pronounced DOW-gav-peels) is the capital of the province of Latgale, where residents are heavily Russian-speaking.

Ieva Reitale, an instructor at an art academy, quickly dispelled the mother’s concerns.

“Just because most of us are Russian speaking doesn’t mean that we are for Russia,” Reitale responded with a smile. “We have many cultures here under our roof.”

About a quarter of the population of Latvia is predominantly Russian-speaking — about the same proportion as neighboring Estonia. The Kremlin and its agitprop machine has been trying to use the putative grievances of Latvia’s large Russian-speaking population to undermine the country’s democratically elected government since Latvia regained its independence in 1991.

If it had made significant progress in doing so, or if there was a major surge of support for Russia’s move against Ukraine amongst the general Latvian population, one might think that the first place to look would be this heavily Russian-speaking city.

So I decided to find out.

Daugavils is the second-largest city in Latvia, a three-hour train ride from Riga, Latvia’s capital. The first time I visited was in October 2017, a year after the BBC had broadcast a documentary that enraged the city’s residents. Titled World War Three: Inside the War Room, the film convened a conclave of former senior British military and diplomatic figures who war-gamed an imaginary scenario focused on Daugavpils in which Russia conducted an incursion into Latgale, the Russophone province of which Daugavpils is the capital.

In the film, in scenes that mirrored ones that had taken place in 2014 in Crimea and Donbas, a battalion of balaclava-wearing Russian soldiers without insignia — called “green men” — storm a local government building and hastily remove Latvian and European Union flags as a raucous crowd of indigenous Russophiles lustily cheers them on.

The real-life Russian-speaking residents of Daugavpils, the once-great Russian imperial city known as Dvinsk, were still livid about the BBC film a year later, complaining that it presented an incendiary and false picture of their community and how they felt about Russia.

Locals here also feel misunderstood by other residents of Latvia, and not without reason. Many of my acquaintances in Riga had never even been to Daugavpils. Although it would be inaccurate to call Daugavpils, which has its share of fine restaurants and shops, down and out, wages here do tend to be considerably lower than in Riga. The city’s gloomy train station could use some sprucing up; built in 1951 at the height of the Stalin era, one can still see the remnants of the Soviet red star that was clumsily extracted from its facade.

“I suppose you could say that we are the Appalachians of Latvia,” Olga Petkovich, a journalist who acted as public relations adviser to the mayor, told me in 2017 over breakfast at the Plaza, an elegant rooftop restaurant that featured a panoramic mishmash of elegant Imperial Russian, decaying Soviet and gleaming post-Soviet architecture.

“On the one hand, people from Riga see us as rednecks,” said Petkovich. “Meanwhile, the foreign media seem to think that we’re pining for Russia to invade and rescue our backward city. The fact is this is a fairly sophisticated city in its own right. And things are quite calm.”

Since then I’ve taken the rickety Soviet-era Latvian domestic railways train from Riga to Daugavpils a half-dozen times, and I have yet to witness any tensions between the city’s Russian community and its native Latvian one. Much if not most of the signage is in both Latvian and Russian. So are the menus. The city has a polyglot vibe; quite a few people speak Polish as well, a legacy of the time when the area was part of Polish-Lithuanian Livonia.

Indeed, I have found Daugavpils to be even better integrated than Riga, the capital, where the majority Latvian-speaking population and the Russophone minority tend to work and socialize in their own respective “bubbles.”

Nadezda Stahovska, the head of the local Ukrainian community center, describes Daugavpils as a multinational city, and the numbers back her up. According to the latest census data from 2020, 48 percent of the populace is ethnic Russian, while Latvians comprise 21 percent, followed by Poles (13 percent), Belarusians (8 percent), Ukrainians (2 percent) and “others” (8 percent).

Nevertheless, when I arrived to Daugavpils a few days after the Russian invasion of Ukraine had begun, I wondered what might have changed in the last few weeks or months. How was the city’s varied population, including its large Russian community, getting along now?

Had Putin’s invasion of Ukraine, and the prospective absorption of that former Soviet province into Mother Russia, awakened Russian speakers’ dormant Russophilia? Or was Daugavpils’s reaction more like that of Riga, where buildings are draped in Ukrainian blue and yellow and a seething crowd of several thousand residents gathered to protest outside the Russian embassy?

That question was answered as soon as I checked into my upper-story room at Hotel Latgola and in the distance saw the facade of the main building of Daugavpils University bathed in blue and yellow lighting. The following evening, the campus hosted a demonstration of support for Ukraine attended by over five hundred protesters.

Laura Orlina, a graduate of the university and former student activist, called an impromptu drive a few days later for donations of clothing, blankets and other emergency supplies for Ukrainian refugees in Latvia as well as those still sheltering in their besieged cities. In an interview, Orlina told me that she was moved to act after hearing about the plight of the parents of one of her best friends, a Ukrainian national, who lived in Mariupol, which was under siege. The last her friend had heard from them, they were sleeping in the hallway of their battered building. Then their phone went dead.

“That’s when I knew I had to act,” the 25-year-old told me.

Orlina said that she had low expectations for her drive but wound up being overwhelmed by the response. So many people descended on the small room of the city’s Olympic Center that was designated as the drop-off place for the donated supplies that she had to hire an additional bus to transport the donations to Ukraine. “People from both the Latvian and Russian communities came,” she added. “And from all age groups.”

Orlina is a Russian speaker, but she said that was incidental. “In my family we speak Russian,” she told me. “But both Latvian and Russian cultures are close to me and form who I am as a person.”

In Daugavpils, as in other parts of the post-Soviet world, the language you speak doesn’t necessarily determine your ethnicity or your loyalties. “The young people I know,” she added, including Russian speakers, are “aggressively against Putin and condemn his actions.”

Daugavpils is located in the country’s southeastern corner, nestled not far from Belarus and Lithuania and closer to Ukraine than other parts of Latvia. But if anything, I found the mood there less tense than in Riga, which is further away but very much on edge.

Indeed, the conflagration seemed far away when I attended a rehearsal of the Daugavpils Sinfonietta, the city’s impressive symphony, on the 11th day of the war. But of course it wasn’t. The following day, at the insistence of conductor Aivars Broks, an avowed Ukraine supporter, the orchestra began its concert with a rousing performance of the “Ukrainian Bell Chorus.”

It was not hard to find support for Ukraine in Daugavpils, but I wondered about the other side. How much, if any, support was there for Russia in its war against Ukraine?

To find out, my interpreter and I went on a whirlwind visit of the center of the city, stopping and asking shoppers and pedestrians how they felt about the war, and who they supported.

As we did, a busload of refugees arrived, the first of an estimated 5,000 displaced Ukrainians. When we stopped to talk to a weary-looking family of four, we realized they were part of that group.

“Twenty five years of my life in one suitcase,” said a woman in her 60s, evidently the matron of the family, shaking her head and pointing to her lone piece of luggage.

We spoke to about another dozen people. Of those, seven, including older Daugavpilians, told us they either supported Ukraine or expressed horror at the war without indicating support for either side. Four refused to offer their opinion or ran away — we presumed they either supported Putin or feared answering the question.

“There is a culture of silence here,” an American acquaintance who lives in Daugavpils told me. “They probably think you are a spy.”

We did find one woman at the Latgola mall, an older woman in her 60s, who stated flat-out that she supported Russia in the conflict.

“I lived in the Soviet Union,” she said. “I speak Russian. I support Russia.”

I am sure that she is not the only one. I didn’t see any Russian flags while I was in Daugavpils. Nor did I see or hear any public demonstrations of support for the Kremlin. It is possible that those sympathetic to the Russian leader are keeping mum. The last time I was in town, last fall, I remember seeing a swath of colorful T-shirts with Putin’s smiling countenance for sale at a souvenir stall at one of the city’s malls. They were missing this time.

There is more than one reason Putin supporters might be keeping quiet. Latvia has a law against inciting violence; technically, anyone who participated in a pro-Russian demonstration would be in violation of that law, a spokesperson for the Ministry of Foreign Affairs told me.

It is fairly safe to assume that there is a subset of Daugavpils residents, mostly pensioners who rely on Russia for their support, who stand behind Moscow. “Many of the older people I know here support Russia in this conflict,” the Russian-speaking head of one of the departments at Daugavpils University confided to me. “Of course, they would never come out in public in support of Russia,” added the administrator, who asked me not to print his name. “They see what the national trend is.”

How large this subset may be is difficult to assess, but they are certainly there. You can see some evidence on the Facebook page of Andrejs Elksnins, Daugavpils’ Russian-speaking mayor, where Ukrainian zealots and pro-Russians (or perhaps their bots) digitally duke it out behind the cloak of anonymity.
The mayor himself has expressed support for Ukraine while emphasizing the overarching importance of helping the new influx of refugees streaming into town.

On the final night of my visit to Daugavpils, I sat down at the bar of the Hotel Latgola with three young students, all Russian speakers, who lived in the same building as my interpreter. I asked them how they felt about Russia’s new war. One by one, they each expressed their opposition to both Russia and the war.

No one they knew, they said, supported Putin. “Only old ladies,” an 18-year old named Anastasia remarked with a laugh.

All of them were anxious. As another one of the group, Roman, a 21-year-old college student, put it: “I am afraid that the war will come here.”

In that respect, Daugavpils has changed since my first visit. People who were blasé just a few months ago are worried about war, including the possibility of conflict between NATO and Russia. After all, Latvia is now a member of NATO.

Indeed, if one of the objectives behind Putin’s invasion was to put the fright in all of the former so-called Soviet republics, including Latvia and its Estonian and Lithuanian neighbors, one could say that he has succeeded.

Last year, the three “Balts,” as they are known, joyously celebrated the 30th anniversary of their re-independence, as they call the regaining of their independence in 1991. (All three first became independent in 1920, then lost independence when the Soviet Union occupied them during World War II.) Now the Balts and their peoples are on notice that Russia once again has its eye on them, and they know it.

At the same time, I found that Putin has, despite himself, also succeeded in binding Latvia’s Latvian majority and Russian minority closer together, prompting the country as a whole to reconsecrate itself to democracy. That renewed bond was evident at Middle School 10 and at Laura Orlina’s clothing drive.

Orlina may have put it the best: “I may be Russian-speaking,” she told me, “but I am above all a Latvian and a Latvian patriot.”

Una deportazione mascherata? Come i Russi gestiscono i corridoi umanitari

Una deportazione mascherata? Come i Russi gestiscono i corridoi umanitari.

Donbass lettone?

Nei giorni scorsi è apparso sul sito dell’ANSA l’articolo “Rischiamo un altro Donbass“, che vi riporto qui di seguito (lo lascio tale e quale senza le correzioni che sono tentato di fare di fronte alla solita superficialità dei giornalisti italici o padanici).

Daugavpils è la seconda città della Lettonia e questo sarebbe solo un dettaglio se non fosse che dei suoi 100mila abitanti la metà sono russi e molti vorrebbero essere sotto la bandiera della Federazione. Qui è passato il fronte della Seconda guerra mondiale e i nazisti l’hanno quasi rasa al suolo; per chi ha più di sessant’anni ancora oggi esiste l’Unione sovietica, non la Russia; chi ha meno di 30 è cresciuto con la bandiera blu dell’Ue. La guerra in Ucraina rischia di inasprire divisioni che già esistono, di separare etnie e generazioni. “Certo che siamo preoccupati, per l’Ucraina e per quello che succede qui, dove ci sono soggetti che potrebbero utilizzare la situazione per i propri scopi politici”, dice l’ex sindaco Igor Prelatovs che, quando gli chiedi se ci sono cittadini che sostengono l’invasione di Putin, risponde così: “I russi sono il 50%. E’ ovvio che ci sono cittadini filo Putin”. Ecco perché il rischio Donbass esiste. “Non pensavamo sarebbe scoppiata la guerra in Ucraina e invece è successo. Se dico che qui non può accadere sarei un pazzo. E’ un’opzione che non posso eliminare. Dobbiamo rimanere uniti”. Prelatovs è stato sconfitto alle elezioni del 2021 da un candidato più vicino alle posizioni russe, Andreis Elksins. Che ora però si trova in difficoltà. Su Facebook ha annunciato l’arrivo di due pullman di mamme e bambini dall’Ucraina, 49 persone in tutto, sistemate in una palestra.

Tra i commenti c’è chi lo accusa di aver sottratto spazio per fare sport ai piccoli di Daugavpils e chi lo invita a non trasformare la città in un caos. E aggiunge “non ci provocate”.

Se questo è il clima on line, in strada non va meglio. Nella piazza dell’università c’è il busto di Rainis, il più famoso poeta lettone e parlare con la gente non è semplice. La risposta, in russo, quasi sempre è la stessa: “niet, spasibo”.

Poi però qualcuno si ferma. Ineta Poga lavora al municipio di Aglona. Dice subito che “noi non siamo divisi, russi e lettoni, non c’è conflitto, a nessuno importa se sei russo o lettone”: “Putin ha sbagliato, qualsiasi invasione è sbagliata perché a pagare le guerre dei governi sono sempre le persone semplici. Ci sono tantissime persone che lo sostengono e molta influenza l’ha avuta la televisione russa. Spero che non succeda come in Donbass. Ma potrebbe, potremmo vedere quelle divisioni”. Piotr è ancora più esplicito. Lui ha 70 anni, ha fatto il soldato nell’Unione sovietica e poi il camionista. “Io ero militare. I militari devono eseguire gli ordini, anche se hai davanti un tuo familiare lo devi uccidere comunque, funziona così in Unione Sovietica. In questa città ci sono moltissimi russi, ci sono tanti disaccordi nelle famiglie e in molti sostengono Putin”. E quindi? “Ci sono tante persone che vorrebbero essere parte della Russia, ci sono tanti ex militari. Guardano e sentono la tv russa e se sei chiuso verso il mondo, se non vuoi sapere altro, finisce così, come nel Donbass”.

Nella piazza del teatro ‘Vienibas Nams’, anche Vladimir è convito che le cose non vadano bene. “Quando è scoppiata la guerra ho cominciato a guardare come poter andare via. Ci sono persone che vorrebbero far parte della Russia e quindi potremmo diventare come Donetsk e Lugansk. Tante persone appoggiano la Russia, basta provocarli e potrebbe succedere qualcosa”.

Per provare a capire come si sia arrivati a questo punto vanno trovati gli errori della politica. Quelli di ieri. “I politici lettoni dopo l’indipendenza – dice ancora l’ex sindaco – hanno diviso le persone usando questioni etniche e di lingua e questo ha provocato problemi. Ma in questa regione è inimmaginabile, non si può cancellare il passato. Se si chiudono le scuole russe, se mettono le multe perché non sai il lettone, si rischia molto”. E quelli di oggi. “Il blocco del sistema Swift – si anima l’imprenditore italiano Gianluca Gallo, che qui ha moglie, figli e una torrefazione – non danneggia solo Putin e gli oligarchi, è un problema anche per i poveracci: mio suocero è un ex maggiore dell’esercito russo, prende 600 euro di pensione al mese dalla Russia. E questo vale per moltissimi che vivono qui e che prendono anche meno. Ora cosa succederà visto che le banche non possono ricevere i soldi? Avete idea cosa potrebbe succedere qui se la gente resta senza la pensione?”.

Nel corso degli ultimi vent’anni sono stato a Daugavpils due volte, e ci sono passato in qualche altra occasione nei miei numerosi movimenti tra Lituania ed Estonia. In teoria Daugavpils possiede già nel nome i due tipici elementi che attraggono una persona come me: un fiume (la Daugava) e un castello (come si evince dalla parte terminale del nome: pils). Daugavpils è una città decisamente brutta, di quelle che – paradossalmente – diventano “attraenti” e visitabili (e fotografabili, e… e tutto quel che volete) proprio in virtù della loro bruttezza. Con “brutta” intendo una sintesi tra un centro storico europeo piuttosto dimesso e un’orribile perifieria di stampo sovietico. Daugavpils sembra un luogo in bianco e nero, anche quando c’è il sole.

Non sono mai stato in Russia, ma Daugavpils è uno di quei posti (come altri in Lituania, Estonia, ma sopratutto in Lettonia, appunto) dove hai esattamente la sensazione di trovartici.

Escluso l’ovest, non mi piace la Lettonia. Dipendesse da me lascerei l’ovest indipendente e regalerei il nord-est e il sud-est rispettivamente ad Estonia e Lituania: di sicuro ci sarebbe un rapido miglioramento.

Le zone brutte della Lettonia sono quelle a prevalenza russa, vi piaccia o no è una constatazione banale. Se vuoi parlare con qualcuno, se hai bisogno di chiedere informazioni, scordati l’Inglese: devi usare il Russo (che io non so parlare); insomma, sembra di essere in un’altra epoca, sembra di essere da qualche parte nel passato.

Ma lasciamo stare e torniamo all’articolo dell’ANSA, in particolare all’ultimo paragrafo. A partire dal 1991 (ma sopratutto all’inizio del virtuoso decennio successivo) i politici lettoni, fortemente supportati (“aizzati”, verrebbe da dire) dalla popolazione autoctona, hanno creato forti discriminazioni etniche e linguistiche nei confronti dei Russi di Lettonia (idem, sebbene in misura minore, nell’est di Estonia e Lituania), questo è innegabile. Una cosa disdicevole e inopportuna, che non ha creato un buon clima di convivenza e che un domani – pericolosamente vicino – potrebbe innescare la miccia in grado di far detonare il cosidetto Donbass lettone. Potremmo fermarci qui, ma non lo farò. Come sempre, infatti, nell’interpretazione di un contesto storico, dipende tutto dal punto in cui decidiamo di riavvolgere il nastro degli eventi. Detto così sembrerebbe che il risentimento dei Russi di Lettonia, e un eventuale precipitare degli eventi, dipenderebbe dalle discriminazioni imputabili alle politiche del governo centrale. Sembra che tutto fili in modo perfettamente logico. Ma domandiamoci una cosa semplice semplice: cosa diavolo ci fanno dei Russi, e sopratutto così tanti, in Lettonia? La risposta è banale: russificazione, o se preferite, sovietizzazione. In epoca sovietica centinaia di migliaia (anzi, milioni) di persone sono state “spostate” dalla Russia propriamente detta e forzatamente re-insediate nei territori baltici (e in molti altri luoghi ai confini dell’impero). Nel giro di un paio di decenni nelle periferie dei centri storici si sono sviluppate delle estese cinture-satellite (fatte di grigi casermoni certamente funzionali, ma terribilmente brutti), nelle quali gli abitanti preesistenti si sono trovati in breve tempo nella surreale condizione di sentirsi ed essere stranieri in casa propria: vietato l’uso dell’alfabeto, vietato l’uso della lingua, vietato il culto, vietata la musica, vietata l’arte in genere, vietata l’esposizione della bandiera, vietate le manifestazioni di idee e pensiero. Ed è da questo torto che sono nate le discriminazioni dei Lettoni nei confronti dei Russi degli ultimi trent’anni. Come spesso accade, torto genera torto, sebbene le discriminazioni dei Sovietici fissero ben peggiori. I Russi in Lettonia e nel Baltico semplicemente non avrebbero dovuto esserci, se non – ovviamente – nelle percentuali minime dovute alle fisiologiche attività migratorie.

E ora cosa si fa? Ci sono, a mio avviso, almeno quattro scenari possibili.

Il primo, che comprenderete non mi piace per nulla, è quello dell’attesa. Attendere e vedere se la rabbia, da una parte e dall’altra, si spegne e rientra. Un azzardo, un calcolo probabilistico non semplice da portare a compimento. Si potrebbe sperare nelle giovani generazioni, che di stare dalla parte di Putin non ci pensano proprio. Ma le nuove generazioni sono già massa critica sufficiente? Non semplice da stabilire.

Il secondo è quello di concedere un referendum per l’annessione della Letgallia (la Lettonia orientale, schiacciata tra Russia a nord-est e Bielorussia a sud-est) alla Russia. Si chiuderebbe la questione in modo semplice e definitivo, ma il prezzo da pagare sarebbe la cessione di una parte di territorio lettone, già minuscolo.

Il terzo, simile al precedente, ma leggermente migliore, è quello di concedere un referendum per l’indipendenza della Letgallia; Letgallia Stato indipendente, anche dalla Russia; chiaro che si tratterebbe di un’indipendenza più formale che sostanziale.

Infine il quarto scenario, quello da me caldeggiato: la “derussificazione su base volontaria coadiuvata”. Io, governo lettone, pago a te, cittadino Russo che vivi in Lettonia, un compenso di (per esempio) 2.000 euro al mese per dieci anni se ti trasferisci definitivamente in Russia (o in Bilelorussia) senza alcuna possibilità di rientrare in Lettonia. Se vi sembra strano o, peggio, disdicevole, vi faccio riflettere su un episodio illuminante capitato qui a Milano nel non lontano 2013. La multinazionale delle telecomunicazioni per cui lavoravo (che all’epoca aveva un organico di 7/8.000 dipendenti) aveva deciso di sbarazzarsi di 700 unità lavorative (circa il 10%). Ha dunque approntato una lista chirurgica di persone da estromettere. L’immediato intervento dei sindacati ha portato, nel giro di un paio di mesi, a un accordo del seguente tipo: l’azienda avrebbe potuto liberarsi di 700 dipendenti considerati in esubero, ma solo su base volontaria; in pratica veniva offerta una (cospicua) buonuscita a chi avrebbe lasciato l’azienda, ma l’azienda – questo il passaggio furbo – non avrebbe potuto fare rilanci economici su chi avesse deciso di lasciare pur non essendo in “lista nera”. Si è dunque stilato un piano dettagliato che prevedeva diversi scenari di uscita distribuiti nell’arco di un periodo di diciotto mesi, con condizioni via via meno favorevoli. Quello che è successo è che, in occasionne della prima finestra utile (Giugno 2013, cioè il primo mese), l’azienda ha dovuto frettolosamente bloccare il piano perché il numero di dipendenti che avevano optato per lasciare aveva già superato il tetto delle 700 unità. Nell’accettare le condizioni sindacali l’azienda si è tirata la zappa sui piedi; in base alle stime fatte, ha infatti perso oltre il 70% dei dipendenti che non si trovavano nella lista originaria. Coloro che, come me, sapevano di poter rientrare nel mondo del lavoro nel giro di breve tempo (dunque le persone più qualificate), hanno – senza giri di parole – preso i soldi (parliamo di 32 mensilità più due anni di mobilità) e sono scappati verso migliori lidi. Gli altri sono in buona parte rimasti. Ottima strategia sindacale, pessima strategia aziendale. Con i Russi di Lettonia il beneficio funzionerebbe al contrario: ci si libererebbe dei vecchi nolstalgici non integrati (rancorosi, instabili e pericolosi) e resterebbero i giovani occidentalizzati, del tutto avversi all’idea di andare incontro a un peggioramento del loro stile di vita per mere questioni ideologiche.